LITERALITY & PAINTING. UNA SOLUZIONE POSSIBILE
Verso la metà degli anni Sessanta Michael Fried esaltò le peculiarità di un nuovo illusionismo pittorico che aveva portato alla neutralizzazione della piattezza della superficie del supporto. Nessuna istanza era stata così fondamentale per lo sviluppo della pittura modernista come l’esigenza di riconoscere il carattere “letterale” del supporto del dipinto – puntualizzava il critico americano. E tutto ciò comportava, innanzitutto, la necessità di confermare la piattezza o la bidimensionalità della pittura. Il nuovo illusionismo, da Pollock e Newmann fino a Noland e Stella, era in grado di assorbire in sé e dissolvere la superficie pittorica, ma nello stesso tempo, preservarne l’integrità.
Per essere precisi, a essere dissolta (o, al limite, neutralizzata) era la “piattezza” della superficie dipinta, non la superficie stessa, che non veniva affatto negata: “The literalness of the picture surface is not denied.” Il discorso rimandava chiaramente a Greenberg. Mai la flatness sarebbe stata piena e completa: il primo segno fatto su una superficie avrebbe distrutto la sua “virtual flatness”. Il nuovo illusionismo rendeva esplicita una nuova struttura pittorica fondata sulla forma letterale, in grado di determinare la struttura dell’intero dipinto – come nel caso, il più evidente, delle strisce di Stella. Si giungeva così al primato della forma “letterale” su quella dipinta.
Tuttavia il primato in questione spesso si fondava su un rapporto conflittuale tra la pittura e le caratteristiche del supporto, oppure finiva per risolversi in un complesso di relazioni ambigue che non facevano che accentuare il divario tra la letteralità della forma e quella del supporto. Era quasi inevitabile che, dato il contesto, si formasse un’opposizione “critica”, fatta di “giovani” ostili ad ogni forma di illusionismo e sostenitori – come lo stesso Fried sottolineava – di un’arte totalmente “literal”, tale da andare al di là della stessa pittura.
Per quanto contestasse la letteralità ipostatizzata e isolata di Judd e dei Minimalisti, la riflessione di Fried faceva emergere chiaramente la difficile situazione in cui si era venuta a trovare la pittura, ormai di fronte ad un dilemma che rischiava di esserle esiziale.
Da una parte la pittura poteva riaffermare la propria ragion d’essere, riconoscendo il carattere letterale del supporto, confermando l’integrità del piano pittorico e riproponendosi nei termini di un illusionismo pittorico che, però, faceva riemergere il contrasto tra forma dipinta e forma letterale. Oppure, tentare di eliminare alla radice ogni distinzione tra illusionismo e letteralità, come nella proposta dei Minimalisti. Ma ciò avrebbe comportato la rinuncia definitiva alla pittura, per aprirsi alla terza dimensione, allo spazio effettivo, considerato “intrinsecally more powerful and specific than paint on a flat surface.”
Ma si poteva pensare ad una terza possibilità, non contemplata nella contrapposizione tra Fried e Judd, e capace di risolvere il dilemma?
Sarebbe stato possibile realizzare un’opera totalmente letterale, nel senso integrale del termine, senza rinunciare alla pittura?
Per giungere alla soluzione, la scelta è stata quella più radicale: eliminare il piano pittorico, anziché preservarne l’integrità, mantenendo però “intatta” la pittura.
Questo è il passaggio cruciale che ha consentito la realizzazione di un artefatto che è, allo stesso tempo, un dipinto e un’opera integralmente letterale, per la quale ogni eventuale riferimento illusionistico è disgiunto e indipendente dalla procedura pittorica. E il motivo, alla fine dei conti, è anche piuttosto semplice – almeno in linea teorica. Laddove esiste la flatness, l’intervento pittorico non può che creare l’“illusione”, allora per liberarsi di ogni residuo illusionistico non resta che compiere un ulteriore e decisivo passo in avanti. Dipingere senza avvalersi di un piano su cui disporre il colore.
L’asse Greenberg-Fried pensava di salvaguardare la pittura ritenendo impossibile rinunciare all’integrità del piano pittorico, ma lasciando aperto il problema della forma letterale dell’opera. All’opposto Judd credeva che letteralità e pittura fossero incompatibili e, di conseguenza, riteneva che fosse necessario disfarsi della pittura, esaltando la materialità dispiegata della superficie dell’oggetto (non certo l’inverso).
L’esito del confronto appariva fin troppo scontato a sfavore della pittura. Il range delle soluzioni accettabili al basilare problema di come organizzare la superficie del dipinto si era drasticamente ridotto, tanto da prefigurare un’imminente morte della pittura – così Fried riassumeva la situazione.
Ma prima ancora del dibattito americano, le conseguenze per la pittura erano state rese ancor più drammatiche dagli esiti dello Spazialismo di Fontana. L’effrazione del supporto aveva portato all’azzeramento della pittura. Con l’eliminazione della continuità della superficie si era persa definitivamente la possibilità per la pittura di riproporsi nella propria autonomia (così almeno si doveva pensare, in assenza di alternative). E allora l’unico coerente, per quanto paradossale, percorso per continuare a dipingere sarebbe stata la realizzazione di un dipinto, nella forma canonica dell’olio su tela, senza disporre del piano su cui disporre il colore. Una pittura svincolata dalla superficie e al di là della piattezza si è finalmente concretizzata in un artefatto, prodotto nel giugno del 2019 – un dipinto che corrisponde all’ipotesi di un quadro “senza tela” come risposta alla situazione posta dallo Spazialismo. Ma non solo, rinunciando alla superficie come sua premessa operativa, la nuova pittura coincide strutturalmente con il supporto stesso. Il nuovo Artefatto ci dice, pertanto, che è possibile una risposta effettiva a questioni di difficile soluzione, come quelle poste dallo Spazialismo e dalla contrapposizione tra Donald Judd e Michael Fried.
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